Cosa è il Kalari Yoga?[1]
Di certo non è un nuovo stile da
lanciare nel mercato della spiritualità, né, nonostante si riferisca nel nome e
nelle forme all’antica arte marziale indiana del Kalaripayattu –uno sport da
combattimento, ma si tratta per me dell’’ennesima tappa di un lungo percorso di
ricerca sulle origini dello Yoga; un percorso intrapreso insieme a Laura Nalin
e ai nostri collaboratori, alcuni decenni fa, quando, dopo aver notato alcune
incongruenze nei testi e nelle tecniche che insegnavamo, abbiamo cominciato a
mettere in dubbio l’esistenza di uno Yoga unico.
L’insorgere di tale dubbio è
un’esperienza comune a molti praticanti “anziani”: improvvisamente alcuni degli
insegnamenti ritenuti “tradizionali” e al di sopra di ogni possibile
discussione – come quello degli yama e dei niyama, i dieci principi etici di
Patañjali – cominciano a stridere con ciò che si sperimenta e con ciò che si
legge, nei testi classici dello Haṭhayoga,
come Gorakṣa
Saṃhitā,
Gheraṇḍa
Saṃhitā
o Haṭhayogapradīpikā.
Come va interpretato, ad esempio, il primo Yama - Ahiṃsā –
inteso come non violenza, alla luce dell’esistenza, testimoniata da fonti
greche, persiane e inglesi, di unità combattenti di Yogi, famose per l’abilità
militare e la ferocia?
Come è possibile far
convivere nel medesimo sistema di insegnamento, il quarto Yama dello Yoga Sūtra - Brahmācarya inteso come
castità e astinenza sessuale – e le pratiche sessuali descritte con una
chiarezza imbarazzante nei testi di Haṭhayoga?[2]
La verità, sospettata da molti e temuta da alcuni, è che esistono
– almeno - due tipi diversi di Yoga[3]:
1.
Il primo è legato all’ortodossia brahmanica intesa
come sistema filosofico basato sull’autorità dei Veda[4] e che perciò
viene definito spesso, a ragione, ortodosso;
2.
Il secondo, eterodosso, fa invece riferimento agli haṭhayogin
medioevali, detti spesso “jogi”, che non si rifacevano necessariamente
all’induismo brahmanico, ma traevano le loro radici dal tantrismo buddhista –
il Sahajāyāna
e da una serie di dottrine e pratiche rituali legate al culto di una divinità
estranea alla mitologia vedica Kurukullā
conosciuta in Tibet come Tārā
Rossa, in Nepal come Kubijika e nel sud dell’India come Tripurasundarī.
In
epoca moderna, con il fenomeno della sanscritizzazione[5],
e soprattutto con la riforma dell’induismo realizzata nel XIX e XX secolo dalla
allora potentissima Società Teosofica e dai membri dell’aristocrazia bengalese[6],
si tentò di fondere i due tipi di Yoga – ortodosso ed eterodosso - in unico
sistema, che potremmo definire “Yoga moderno”. Questo Yoga moderno - che
comprende, oggi, sia lo Yoga filosofico/speculativo legato alla letteratura
vedica, sia lo Yoga tra virgolette “fisico”, sia lo Yoga, sempre tra
virgolette, “religioso” che strizza l’occhio al cristianesimo e alla new age –
ha il pregio di unire in un unico contenitore, sotto un unico nome, le diverse
anime della filosofia e delle tecniche psicofisiche indiane, ma, proprio per il
suo sposare forzatamente teorie e pratiche diverse per origini, metodo e
finalità, rischia di generare confusione. A farne le spese è soprattutto lo haṭhayoga, che da
tecnica alchemica, sviluppatasi e diffusasi contemporaneamente nell’India del
Sud e nei paesi Himalayani, si è trasformato nell’idea di molti, in una salùbre
ginnastica o in un metodo per preparare le articolazioni alla meditazione
seduta. Lo haṭhayoga, basato
sullo Āyurveda
e sulla filosofia ateistica del Sāṃkhya si sviluppa in epoca relativamente
recente (V-VI secolo d.C.)[7]
in ambienti legati al buddhismo tantrico, e la sua epoca d’oro coincide con
l’ascesa e il declino di Vijayanagara, la “civiltà per
duta”.
Vijayanagara
era il più vasto e ricco[8]
impero della sua epoca: si estendeva per 40 milioni di km e comprendeva tutta
l’India del Sud. A dar retta ai racconti dei viaggiatori europei, come Duarte
Barbosa[9],
Fernao Nuniz[10],
Niccolò de’ Conti[11]
- e dei diplomatici islamici, come l’ambasciatore persiano Adul al Razzāq
Samarqandī[12],
l’Impero, oltre che per la bellezza e ricchezza delle città, era noto per la
politica illuminata dei regnanti, per la loro tolleranza in ambito religioso ed
per il loro amore per le arti e le scienze, tanto che Vijanagara, la capitale,
omonima, dell’impero era considerata – non solo nel subcontinente indiano - il
centro di tutti i movimenti artistici e culturali dell’epoca.
Nel
periodo del suo massimo fulgore le strade e le piazze di Vijanagara - la
capitale, omonima, dell’Impero - erano affollate di viaggiatori stranieri,
mercanti, teatranti di strada e hathayogi, donne e uomini, che si esibivano,
pare, in danze o in performances acrobatiche.
Nel
sistema educativo, straordinariamente moderno, di Vijayanagara le attività
fisiche rivestivano un ruolo fondamentale e a partire dall’età di sette anni
bambine e bambini, senza distinzioni di genere e di caste, praticavano insieme
yoga, danza e, soprattutto, arti marziali.
La
diffusione, in tutti gli strati della popolazione, delle tecniche di
combattimento, è probabilmente uno dei motivi della supremazia militare di
Vijayanagara: l’esercito dell’impero, composto sia da uomini sia donne
provenienti da tutte le classi sociali veniva considerato l’ultimo insuperabile
baluardo hindu contro le invasioni islamiche. Vijayanagara prosperò per tre
secoli, poi, nel 1565
l’improvvisa morte dell’imperatore Aliya Raya Rama nella battaglia
di Talikota - in quella che era già annunciata come una
chiara vittoria per Vijayanagara contro
l'alleanza formata dai Sultanati
del Deccan - fece precipitare
le file imperiali nel caos.
La capitale fu occupata e saccheggiata e
l'ultimo, grande impero hindu si avviò verso un rapidissimo declino, tanto da
scomparire senza lasciare traccia, dimenticato “da dio e dagli uomini”, fino al
1799, quando l’antiquario Colin Mackenzie scoprì nella giungla le rovine della
capitale, ne disegnò la mappa e dipinse una serie di acquarelli ritraenti i monumenti
più significativi[13].
Ancora oggi sono pochi coloro che conoscono la
storia dell’impero dimenticato di Vijayanagara, e questo è un tipico esempio
del paradosso indiano: dato il successo, sul mercato occidentale, dei prodotti
culturali indiani, abbiamo l’illusione di avere una conoscenza della patria
dello Yoga, ma i fatti più rilevanti, in realtà, ci sfuggono.
Tanto per fare un esempio l’India, al netto di
miti e leggende, come entità nazionale, con una propria identità
amministrativa, culturale e religiosa, non è esistita fino al 1947, anno della
nascita della Repubblica indiana. Fino ad allora, quando non era suddivisa in
centinaia di piccoli stati autonomi e in conflitto tra loro, è stata terra di
conquista di popoli stranieri, almeno a partire dall’invasione persiana del 520
a.C.
Fanno eccezione tre particolari momenti
storici:
1.
Il periodo della
dinastia Gupta, che governò la maggior parte dell'India settentrionale, del
Pakistan orientale e del Bangladesh, per 260 anni, tra il 240 e il 500 d.C.;
2.
Il periodo della
dinastia Chola, che regnò sull’India del sud e influenzò culturalmente ed
economicamente gran parte del Sud Est asiatico dal IX al XIII secolo.
3.
Il periodo, appunto,
di Vijayanagara, l’impero perduto che, dopo tre secoli di splendore, crollò nel
XVI secolo e scomparve definitivamente, anche dalla memoria degli abitanti,
agli inizi del XVII secolo.
Dopo la caduta dell’ultimo grande impero hindu l’India fu
governata dalla dinastia turco-mongola dei Mughal fino al XVIII secolo, quando,
prima commercialmente, poi militarmente e politicamente, cadde sotto
l’influenza dell’Impero britannico. In seguito alla grande carestia del 1770, i
“Saṃnyāsin”, eredi degli yogi guerrieri del
medioevo alleati con alcuni signori locali, presero le armi contro gli
occupanti dando vita di fatto alla “prima guerra d’indipendenza indiana”,
chiamata oggi “the Saṃnyāsin Rebellion”. A metà del XIX
secolo, in accordo con i Brahmani, più inclini degli Yogi, a cercare una via
diplomatica ed una pacifica convivenza con gli occupanti, gli inglesi dettero
vita contemporaneamente ad una repressione militare e ad una revisione
culturale e storica - meglio sarebbe dire manipolazione – che di fatto cancellò
le arti tradizionale indiane e, ovviamente, i lignaggi degli yogi guerrieri[14]; la pratica delle arti marziali
indiane venne proibita e scuole e templi furono, in gran parte saccheggiati e
distrutti. Molti haṭhayogi,
finirono per fare i mendicanti o per esibirsi come fenomeni da baraccone; le Devadāsī interpreti e custodi della danza
sacra e delle pratiche sessuali, quando non riuscirono a trovare asilo alla
corte di qualche Rāja, furono costrette, per legge[15], a prostituirsi. Le arti
tradizionali dell’India del Sud - prezioso patrimonio culturale di
Vijayanagara, sopravvissuto alla dissoluzione dell’impero nelle comunità locali
del Tamil Nadu, del Kerala, del Karnataka e dell’Andhra Pradesh – andarono
quasi completamente perdute. Nel XX secolo, i teosofi e gli intellettuali
indiani del movimento di indipendenza – i cosiddetti “Fighters of Freedom” –
scatenarono un’ondata di riscoperta delle arti tradizionali in tutta l’India
meridionale[16].
Negli anni ’20 Chambadan Veedu
Narayanan Nair, allievo, Kottakkal Kanaran
Gurukkal – un lottatore che aveva dedicato la sua vita alla ricerca delle
originarie arti marziali indiane, fondò la prima scuola di
Kalaripayattu moderno, il Kerala Kalari Sangham, e strutturò il Kalari nella forma
oggi conosciuta.
A Madras (l’attuale Chennai) la
teosofa Rukmini Devi Arundale agli inizi degli anni ’30 rifondò la danza
bharathanatyam, basandosi sull’iconografia dei templi, sui ricordi degli
anziani – come il maestro Meenakshisundaram Pillai – e la danza classica
occidentale.
Nello stesso
periodo a Mysore Tirumalai Krishnamacharya ideò un proprio haṭhayoga, prendendo
spunto sia dagli insegnamenti del padre danzatore, sia dalla moderna ginnastica
occidentale sia dall’iconografia tradizionale.
La danza
neoclassica indiana, il kalaripayattu e lo haṭhayoga odierno,
in altre parole, non sono arti millenarie, ma vanno considerate frutto di un
processo storico di riformulazione stilistica finalizzato alla creazione di una
identità nazionale: Narayanan Nair, Rukmini Devi e Krishnamacharya, si
trovarono a dover reinventare delle arti tradizionali affidandosi all’intuito,
alla memoria degli anziani, all’osservazione accurata dell’iconografia
tradizionale e alla esperienza personale. Più o meno consciamente i tre maestri
volsero lo sguardo all’Impero perduto di Vijayanagara, l’ultimo impero hindu,
la cui storia è legata a doppio filo a quella della danza, della musica, delle
arti marziali e dello haṭhayoga.
Nessuno in realtà potrà
mai sapere davvero quali fossero le tecniche degli yogi e dei guerrieri di
Vijayanagara; nessuno potrà mai essere certo di eseguire i loro stessi
movimenti e di vivere le medesime emozioni, ma, mi piace pensare che Narayanan Nair, Rukmini Devi e Krishnamacharya
aspirassero a cogliere il rasa, l’essenza dell’Impero perduto, una specie di
Shambala, nella nostra immaginazione, una terra senza discriminazione di
genere, casta o religione dove fiorirono le arti del corpo indiane.
Lo “Yoga del
Guerriero”, oltre ad essere una disciplina sportiva che coniuga lo Yoga
“eterodosso”, la danza e le Arti marziali, nelle nostre intenzioni è
un’occasione, un vero e proprio laboratorio sulle possibilità espressive
dell’essere umano.
Per cercare di cogliere lo spirito degli
innovatori delle arti indiane, Narayanan Nair, Rukmini Devi e Krishnamacharya, Laura
Nalin ed io, entrambi maestri esperti Formatori CSEN della disciplina Yoga,
nella stesura del programma del Kalari Yoga abbiamo iniziato a collaborare con
Agith Kumar, direttore di una delle più antiche accademie di Kalaripayattu dell’India,
l’accademia Maruthi Marma Chikilsa & Kalari Sangham (Mudavanmukal,
Trivandrum Kerala), con Marianna Biadene, la più grande danzatrice di
Bharatanatyam italiana, con i maestri italiani di Ayurveda Gabriele Gailli e
Massimo Capuano, e con i giovani acrobati di PLHOMO, maestri di Parkour e di
Movimento Naturale.
In definitiva
il Kalari Yoga o “Yoga del Guerriero”, per noi è un altro passo nel percorso
alla ricerca delle origini dello Haṭhayoga, un percorso intrapreso da
occidentali, con un occhio rivolto al passato mitico di Vijayanagara ed uno
rivolto al futuro.
[1] Questa presentazione è stata pubblicata il 4 agosto 2022
sulla rivista online “Yoga Magazine”. Vedi: https://www.yoga-magazine.it/2022/08/lo-yoga-del-guerriero-e-limpero-perduto-di-vijayanagara/
[2] Nello Haṭhayogapradīpikā, vengono descritte pratiche erotiche in maniera così
esplicita da non lasciar spazio a nessuna interpretazione simbolica o
allegorica; si legge in Haṭhayogapradīpikā III, 87-91-93-94-96:
[...] Che l'uomo si alleni a risucchiare lo sperma anche dopo
che è stato versato all'interno della vagina [...].
[...] Il vero yogi risucchia con il pene [...] sia lo sperma
che i fluidi sessuali femminili [...].
[...] Dopo aver fatto l'amore, i due amanti devono ungere i
loro corpi con lo sperma e i fluidi vaginali mescolati insieme e rimanere
seduti in pace a godersi la loro gioia [...].
[...] Il controllo dei fluidi sessuali fa bene anche se c'è
l'eiaculazione [...].
[...] Lo sperma più buono è quello mediano. Quello iniziale è
troppo carico di bile e quello finale è povero di sostanze nutrienti [...].
[3]
Se analizziamo i
testi classici dello Haṭhayoga e li
confrontiamo con lo Yoga Sūtra di Patañjali noteremo
sicuramente, al di là dell’utilizzazione di un linguaggio apparentemente
simile, enormi differenze sia sul piano pratico sia sul piano teorico. Haṭhayogapradīpikā, Gheraṇḍa Saṃhitā e Gorakṣaśataka descrivono uno Yoga eminentemente “fisico” – lo Haṭhayoga – nel quale possiamo riconoscere queste caratteristiche
fondamentali:
1.
È uno Yoga in cui le pratiche fisiche - āsana, bandha, mudrā – rivestono
un’importanza fondamentale;
2.
È uno Yoga basato sul sistema dei cakra e delle nāḍī;
3.
È uno Yoga finalizzato all’ottenimento di particolari poteri e
abilità, compresi la salute, la bellezza, la longevità e il ringiovanimento;
4.
Questi poteri sono il risultato della percezione, dell’attivazione
e dell’utilizzazione di un’energia chiamata Kuṇḍalinī.
Lo Yoga Sūtra descrive invece
uno Yoga eminentemente psicologico, ben lontano dagli insegnamenti dello Haṭhayoga. Nello specifico, nel testo di Patañjali:
1.
Non viene descritto un solo āsana e non si parla né
di bandha né di mudrā;
2.
Non viene mai citato il sistema dei cakra[3];
3.
I poteri – siddhi - ottenibili con la pratica sono visti come un
ostacolo alla “realizzazione”;
4.
Non viene menzionata una sola volta l’energia Kuṇḍalinī.
[4] Vedi: AMṚTA, Gli Insegnamenti di Gorakhnāth sullo
Haṭhayoga. https://www.amazon.it/AM%E1%B9%9ATA-Insegnamenti-Gorakhn%C4%81th-Ha%E1%B9%ADhayoga-Traduzione/dp/B09WS4S7LL/ref=tmm_hrd_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr=
[6] Stiamo parlando di personaggi come swami Vivekananda, Debendranath Tagore,
Sri Aurobindo Ghose e Paramhamsa Yogananda ecc. tutti
appartenenti alla “jati” dei Bengali Kayastha, una delle tre jati – insieme
a quella dei Brahmini e quella dei Vaidya, che compongono lo
“strato più elevato” della società hindu. Vedi: John Henry Hutton, Caste in India: Its Nature, Function, and Origins. Indian Branch, Oxford University Press (1961).
[7] Vedi: “AMṚTA, Gli Insegnamenti di Gorakhnāth sullo Haṭhayoga”,.https://www.amazon.it/AM%E1%B9%9ATA-Insegnamenti-Gorakhn%C4%81th-Ha%E1%B9%ADhayoga-Traduzione/dp/B09WS4S7LL/ref=tmm_hrd_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr=
[8]
La leggenda vuole che nei mercati di Vijayanagara, capitale dell’omonimo
impero, si vendessero smeraldi e zaffiri grandi come uova. Per la storia di
Vijayanagara vedi: https://www.penn.museum/sites/VRP/VRP%20Articles,%20PDFs%20[SK%20091225]/Davison-Jenkins%201997%20'The%20Kingdom%20of%20Vijayangara'.pdf o https://www.penn.museum/sites/VRP/VRP%20Articles,%20PDFs%20[SK%20091225]/Verghese%201995%20'...Historical%20,%20Religious%20%20and%20Archaeological%20Background'.pdf
[9] Duarte Barbosa (1480-1521), cognato di Magellano, esploratore e scrittore
portoghese, si trasferì in kerala all’età di 20 anni. Nel 1516 pubblicò il
“Libro di Duarte Barbosa”, con la descrizione degli usi e dei costumi delle
culture orientali.
[10] Fernao Nuniz (1500-1550), mercante e viaggiatore, visse per tre anni nella
capitale dell’Impero Vijayanagara, descrivendone l’economia, gli usi e i
costumi in un libro ristampato ancora ai nostri giorni, “”Chronica dos reis de
Bisnaga”. Vedi:
R. Sewell, F. Nunes, D.Paes, “A forgotten empire: Vijayanagar; a contribution
to the history of India”. Adamant media Corporation, 1982. ISBN 0-543-92588-9,
[11] Niccolò de’ Conti (1395-1469) visitò Vijayanagara intorno al 1420. Le
cronache dei suoi viaggi in India sono pubblicate ancora oggi. Vedi: Nicolo de
Conti, “Le voyage aux Indes”,2004, ISBN 290642861.
[12] Adul al Razzāq Samarqandī (1413-1482), è stato l’ambasciatore in India dell’Impero
persiano dal 1442 al 1445 descrivendo le sue esperienze nel suo libro
“Matla-us-Sadainwa Majma-ul-Bahrain” (“Il Sorgere delle due Costellazioni di
buon Auspicio e la Confluenza dei due Oceani”)
[14] Vedi: Śaṅkārācārya Prakashanand Saraswati, “The True History and
the Religion of India: A Concise Encyclopedia of Authentic Hinduis”. https://www.amazon.it/True-History-Religion-India-Encyclopedia/dp/0967382319
[15] L’istituto delle Devadāsī - cancellato da una legge
del 1864, il “Cantonment Act” - dette in lingua tamil Devar Adigalar,
“servitrici della divinità” - spesso considerate una casta a parte, pare sia antichissimo,
anche se la prima testimonianza scritta è solo del IV – V secolo d.C.[15] Si
trattava di bambine - quasi sempre figlie di una Devadāsī ed un brahmino o un nobile - che per doti innate o in
seguito a determinate configurazioni astrali, venivano scelte per svolgere la
funzione di sacerdotesse del tempio. Per tutta la vita si dedicavano alla danza
in onore delle divinità (Bharatanatyam), alla musica, allo Yoga e ai
riti sessuali. Oggi le definiremmo yoginī tantriche. La loro tradizione raggiunse il massimo
splendore nel periodo dell’impero Chola (VIII –XII secolo) - durante il quale
si svolgevano riti grandiosi in cui danzavano fino a 400 Devadāsī[15] e nel
periodo dell’impero di Vijayanagara.
[16] Vedi: Phillip B. Zarrilli, (1998). When the Body Becomes All Eyes:
Paradigms, Discourses and Practices of Power in Kalarippayattu, a South Indian
Martial Art. Oxford: Oxford University Press. ISBN 978-0-19563-940-7.